ANDY WARHOL NON MORIRA’ MAI


A cura di Matteo Vanzan

Ci provò, mio padre, a spiegarmi l’importanza della pennellata all’interno della pittura. Pomeriggi nel suo atelier ad ascoltare il rumore impercettibile di setole sulla tavolozza, ad assaporare l’odore inconfondibile della trementina mescolata ad una sigaretta che lentamente moriva su un posacenere ormai colmo. Mi iniziava ai segreti della campionatura del colore e alla ricerca della luce attraverso le opere dei grandi maestri: Tintoretto, Caravaggio, Raffaello, Michelangelo, sfogliando cataloghi e prendendo appunti con matite consunte su quaderni sparsi in ogni dove. Una vita dedicata all’arte, allo studio della pittura e dei Maestri del passato grazie ai segreti di pochi artisti che, silenziosamente, venivano svelati nel lento procedere del dipingere. Il fumo della sigaretta rendeva la vista offuscata; una nebbia che penzolava dalle labbra di un pittore sempre voltato di spalle, attento, lo sguardo fisso su un punto preciso, una foglia di fico per la precisione. È itmmobile, mio padre, in attesa di una materia che aspetta solo di posarsi su quell’impercettibile punto che darà vita ad una natura altrimenti morta. “Il segreto” diceva “sta nel saper usare il grigio”. E, quasi a ricrearlo davvero quel grigio assoluto che avvolgeva le tele mesticate, aspettavo paziente il rituale d’iniziazione proprio delle parti più buie del soggetto – si deve sempre iniziare dalle ombre! ripeteva – avvicinandosi sempre più alla luce, al punto di pennello che accende lo sguardo, che filtra foreste per farci intravedere un sole nascosto dal groviglio incessante della natura che, dopo secoli di studi accademici, diventa viva. Parlavamo di pittura, con mio padre, e di come sia oggi impossibile ricreare quelle cromie e quelle stesure, nonostante tutta l’esperienza di cui possiamo disporre. La potenza espressiva di Lucian Freud o gli spessori di Anselm Kiefer potrebbero avvicinarsi a quell’emozione: reinterpretazioni in chiave distorta di una storia ormai satura, un’umanità volta al decadimento delle carni e al cinismo di una pittura che ci mostra tutta la negatività del nostro piccolo pianeta. E tutti noi lo sappiamo, trovando il coraggio di urlarlo al mondo intero solamente perché nascosti dietro l’inespugnabile scudo della bellezza e della tecnica. è oggettivamente impossibile ricreare quel passato indimenticabile perché inarrivabile è la tecnica propria a quegli artisti. Pensiamo agli immacolati marmi di Canova, nei quali la maestria è il frutto di anni di studio che consacrarono un genio dell’esecuzione e dell’eleganza.
Come inarrivabile è la Cappella Sistina, le cui pareti ci vengono descritte da Papa Giovanni Paolo II come la rivelazione di un “genio umano che ha tratto la sua ispirazione impegnandosi a rivestirle di forme di ineguagliabile bellezza”. Per quel che mi riguarda, inarrivabile è l’idea di presentare un orinatoio in una delle più importanti kermesse mondiali nel 1917, unica opera rifiutata tra le 2500 presentate, capendo molto tardi le parole di Louise Norton, il quale mi spiega che “se Mr. Mutt abbia fatto o no la fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l’ha scelta, creando una “nuova idea per l’oggetto”. é davanti ad una pizza dell’Amadeus, localino in provincia di Vicenza, che queste mie parole caddero libere su anni d’insegnamenti e sigarette consumate, mandando all’aria secoli di Accademia e di sapere e trovando proprio in mio padre un valido alleato distruttore del passato ed impensabile innovatore dallo sguardo rivolto al futuro. Avevo quasi paura a pronunciarle, quelle parole, proprio per la mia concezione radicale sulla storia dell’arte che mi ha portato, nel tempo, a riconoscere la bella pittura dalla grande idea, dividendo i protagonisti in tre grandi sezioni: gli Artisti, i Grandi Artisti e gli Artisti Determinanti.
Gli Artisti sono inimitabili ricercatori concettuali che rientrano in manifesti e correnti artistiche che hanno segnato un’epoca. Sono citati nei libri di storia dell’arte, storicizzati e ricchi di esposizioni nei più prestigiosi Musei internazionali, a tutti gli effetti impressionanti protagonisti di un fermento culturale che portava il nome delle grandi capitali dell’arte come Parigi, Roma e New York. è un gruppo vastissimo di personalità eclettiche in grado di animare gallerie d’arte, mercanti e collezionisti alla ricerca di affari e nuove tendenze. Ben diversi da coloro che l’epoca la segnarono veramente, influenzando intere generazioni di artisti e diventando dei leader indiscussi. Di Cezanne, Picasso, De Chirico e Fontana, d’altro canto, non possono nascerne molti, specialmente in un unico secolo. Escono da casa, e capisci che loro sono l’Arte; sono instancabili ricercatori e assoluti padroni della tecnica, ora concepita come un mezzo e non come fine, per tracciare il cammino di un rinnovamento stilistico atto a mutare un linguaggio ormai desueto. Cezanne traccia, Picasso trova, De Chirico condanna e Fontana oltrepassa la tela aspettando un barattolino pieno di feci che denuncia il declino di un mondo dell’arte che ha la presunzione di rifilarci come musica ciò che viene “creato” nei programmi della De Filippi. Un mondo dove questi Grandi Artisti vengono tartassati di richieste da parte di galleristi e mercanti che vogliono soddisfare la richiesta di un mercato sempre più vasto e disposto a pagare a peso d’oro anche le più ignobili croste purché firmate e autenticate. E allora si deve dire che non si segue più né il concetto di Arte né quello della ricerca attenta dell’opera con la O maiuscola, che alla fine ha lo stesso valore di una secondaria di un autore altrettanto importante, ma si vuole a tutti i costi possedere un artista semplicemente per la vanità di asserire “io ce l’ho”. Ecco perché parlo di Artisti Determinanti. Artisti che hanno il coraggio di scegliere – Duchamp – o il coraggio di dire – Warhol – cambiando per sempre, e finalmente oserei dire, le carte in tavola. Al di là dell’essere massimo interprete del proprio tempo, dell’intuire che la produzione industriale era un potenziale da sfruttare nel concepimento dell’opera in serie, della genialità dell’utilizzare la serigrafia su tela e su carta (dal valore commerciale sicuramente diverso, ma con la stessa valenza artistica), Warhol ha avuto il coraggio di dire che noi non acquistiamo una macchina Ferrari, un cellulare Iphone, un quadro di Warhol, bensì spendiamo il nostro denaro in una Ferrari, un Iphone, un Warhol. Quell’articolo indeterminativo rappresenta tutto ciò che il brand a seguire rappresenta: macchina, cellulare, arte. E lo ha detto nel modo più semplice ed efficace possibile: firmando il denaro ed elevando il valore di una banconota da 1,00 dollaro in una banconota da 4500,00. “Ecco il potere del mio pensiero” sembra urlarci dalla tomba Andy, “un’idea è un mondo capace di trasformare un oggetto di poco valore, come un barattolo di zuppa, in un oggetto del desiderio collettivo che vi farò pagare a peso d’oro solo grazie al mio autografo”. Questa è stata la sua più grande rivoluzione, quella di dirci che noi acquistiamo ciò che l’opera d’arte rappresenta, denaro e business, dando voce al misterioso impulso che qualche anno fa ha spinto anche me a dire “lo devo possedere assolutamente”. Avere sulla parete di casa una sua opera mi ha reso partecipe del suo universo fatto di Factory, creazione, genialità, vita all’eccesso e di un vortice che tutto attira, da Mick Jagger fino al collezionista di periferia forse perché, come amava ripetere, la “pop art è un modo di amare le cose” e alla fine tutti hanno amato, o dovrebbero iniziare a farlo, Andy Warhol. Lo celebriamo oggi e lo vorrei fare grazie al significato delle parole di un amico, il critico Alberto D’Ambruoso, che anni fa mi disse: “se fosse stata una moda, la Pop Art sarebbe morta da tempo”. Invece ancor oggi siamo qui a discuterne e a litigare sul concetto di originale e copia nel lavoro di Warhol, senza capire che questi paletti ormai non hanno più ragione d’esistere. Un Warhol è un Warhol e basta!